Acqua Appia, Acqua Claudia, Acqua Ania, Acqua Marcia e, per contrappeso, persino Acqua Vergine: può restare a secco una città così? Solamente Roma l’Eterna si è potuta concedere nei secoli il lusso di imporre il nome dei suoi figli all’elemento più diffuso nell’Orbe che, per l’appunto, si chiama terraqueo. Padrona della terra, Roma, e dominatrice dell’acqua ben prima di costituire la sua flotta micidiale. Anzi, all’acqua in qualche modo consustanziale, giacché all’acqua si deve la vita di Romolo e Remo, salvati dal Tevere così come Mosè lo era stato dal sacro Nilo, e se si hanno dubbi sulla fondatezza dell’accostamento si vada al crocevia delle Quattro Fontane, in cima al Quirinale, a vederne le sculture.
Consustanziale anche perchè Roma sull’acqua è stata fondata e per il controllo dell’acqua è stata immaginata. Il Palatino altro non è se non un avamposto che permette il controllo del passaggio sul Tevere, all’Isola Tiberina, nel punto in cui si incrociano l’antica Via del Sale e gli attracchi delle navi focesi a carena ridotta. Soprattutto, però, l’acqua è naturalmente dentro Roma, che nel suo attuale sottosuolo è ancora attraversata da rigagnoli e fiumicelli nascosti all’immaginazione dei più.
Ne resta uno solo ancora udibile e visibile: scorre discreto tra le pareti in laterizio di un mitreo nascosto, a sua volta, nelle fondamenta della chiesa di San Clemente, a due passi dal Colosseo. Il quale Colosseo, è risaputo, all’acqua anch’esso deve la nascita, essendo stato eretto sul lago della Domus Aurea neroniana ed accanto alla più grande fontana della Roma imperiale, la Meta Sudans che sul luogo del colosso dell’Imperatore suicida era stata costruita dai Flavi.
Erano la vera ricchezza delle nazione romana, i suoi ruscelli, il primo passo verso la conquista di un Impero: permisero, scendendo dai fianchi di sei dei sette Colli, la costruzione dei primi insediamenti, la nascita di una federazione e le lotte vincenti con i Sabini accampati sul Quirinale: colle secco e arido anche se oggi le fontane ne nascondono la vergogna. Il Ratto delle Sabine probabilmente nasconde la prima guerra per l’acqua della Storia occidentale.
I Romani avevano preso dagli Etruschi, noti per seguire il corso dei fiumi nella loro ansia di fondare città, a costruir cunicoli scavati nel tufo per farla passare e distribuirla. Se ne riconosce uno ai piedi della Rupe Tarpea, sul Campidoglio: uno spazio angusto nella pietra rossa e solo apparentemente duttile. Vi si calava un solo schiavo alla volta, a scavare di martellina e olio di gomito nella perfetta oscurità rotta, nel fumo insopportabile, dal chiarore di una torcia.
Per mezzo millennio quell’acqua bastò, fino a quando una serie di estati aride si fecero sentire su una città ormai pronta a prendersi il mondo. Ma la Repubblica funzionava e progettava, e soprattutto realizzava: nacquero i grandi acquedotti all’aria aperta, quelli teorizzati da Vitruvio e grazie ai quali anche le ville rustiche pensate da Catone il Censore alla fine avevano di che dissetarsi. Opere pubbliche, pagate dall’erario per il bene comune, patrizio e plebeo. Si costruiscono così gli Stati che sopravvivono nei secoli.
Infatti Roma perde i suoi acquedotti solo con il finire dell’Impero. Prima restano a secco le monumentali Terme di Caracalla, poi i Goti di Totila cingono d’assedio l’Urbe e, per assetarla, interrompono i flussi e spaccano le tubature. Il Mediovo nasce proprio in questo momento: insieme ad un ritrovato rapporto, che sarà ultrasecolare, con il Tevere. Acqua poco salubre, quella del Tevere, che Traiano usava solo per far girare i mulini che aveva collocato ai piedi del Gianicolo, ma pur sempre acqua.
Ne bevono a grandi sorsate gli assediati e i loro figli, tra lo stupore e il leggero disgusto, mille anni più tardi, di un Petrarca imbevuto di sogni classici e chiamato a Roma per ricevere, primo dai tempi dell’Impero, il titolo di poeta laureato. Lascia Avignone carico di entusiasmo, trova una Roma sporca e stracciona, che nel Tevere si tuffa si lava e pesca all’unisono, senza badarci troppo. Altro che la ricerca delle acque termali che aveva spinto i legionari a impiantare accampamenti per svernare in mezza Europa, e su quelli fondare nuove città che portano nel nome, ancora adesso, l’antica destinazione d’uso.
E’ la Roma papalina del Barcarolo che vive in simbiosi con il suo fiume, boiaccia maledetto come anche fonte di un sostentamento da poveri, con il pesce preso alla bilancia all’attaccatura dei ponti realizzati quando i piemontesi costruiscono, tra mille scandali finanziari, imponenti argini a fare il verso a quelli della Senna. Ma prima dei Savoia il più ambizioso dei Papi di Roma, Sisto V il francescano, aveva provato a ripetere le gesta degli antichi, ristrutturando, allungano e dando il suo nome di Felice Peretti alla vecchia condotta Alessandrina.
Continua a sgorgare, l’Acqua Felice, alla Mostra in Piazza di Santa Susanna. Vi troneggia, con i piedi a mollo tra mille bottigliette lasciate lì a galleggiare mollemente dai turisti, un Mosè che non è certo tra i capolavori del Rinascimento, tozzo e burbero nel suo scimmiottare quello di Michelangelo. Ma anche adattissimo a simboleggiare il carattere del suo committente, e il motivo per cui si era preso tanta cura. Quanto al primo,il carattere, basti dire che dopo aver vessato per anni architetti e operai con le sue continue richieste, una volta portogli il primo bicchiere della nuova acqua di Roma, la prima potabile dopo tanto tempo ad essere riportata in città, non trovò niente di meglio da dire se non: “E’ insipida”.
Quanto allo scopo, il Peretti intendeva muovere il centro di Roma dal Vaticano al Quirinale, facendo del palazzo di Gregorio XIII suo predecessore, la residenza del Papa Re. Talmente re, se non imperatore, da far imprimere il megalomane sulle fistole di piombo dell’Acqua da lui rinominata il motto “Unda semper Felix”. Detto che sa di abbondanza imperitura, e così è stato, almeno fino ad oggi. Tanto che il Comune rinato dopo i potestà ha a Roma nelle fontanelle, i Nasoni, uno dei suoi simboli più umili e più diffusi. Ve ne sono circa 300 sparsi per i vicoli ed il nome, che è dovuto ad un profilo aquilino e quindi italico, rimanda a quel Publio Ovidio Nasone che, all’inizio di tutto, cantava l’acqua e per dare dell’idiota a qualcuno affermava: “Non vede nè le fronde dei boschi, nè l’acqua di un fiume in piena”.
Tra tutti i nasoni di Roma se ne ricordi uno, uno dei più nascosti. Si trova vicino a Vicolo Scanderbeg, dove una volta ci si inerpicava sul Vicus Caprarius. Due passi dalla Fontana di Trevi. Una sera d’agosto una bella ragazza bionda e svedese passeggiava nella frescura a piedi scalzi. Mai farlo, a Roma: si tagliò il delizioso piedino con un coccio di bottiglia, e fu costretta a metterlo sotto il getto del nasone. Poi si lasciò prendere dall’entusiamo e si mise a camminare dentro la Fontana dell’Oceano. Acqua miracolosa, quella di Trevi: la curò dall’infezione.
Lei allora lo raccontò al suo datore di lavoro, che faceva il regista. E questi le fece ripetere la scena di fronte alla macchina da paresa, e pazienza se il replay ebbe luogo a febbraio invece che ad agosto. Anita dal piedino ferito entrò per sempre nell’immaginario collettivo di un’epoca. Se ne è andata non molto tempo fa: bella, prorompente e fresca, semper felix. Un’altra Roma.
Source: www.agi.it
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