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C’era una volta il miele

C’era una volta il miele
27 febbraio 2018

La morte delle api

Un anno che più nero non si può. «Facciamo un mestiere che nostro malgrado dipende dal meteo ma nessuno ricorda un’annata come questa», dice Francesco Panella, dell’Unaapi, l’unione nazionale delle associazioni di apicoltori italiani. Le uniche a dare risultati relativamente soddisfacenti sono state le produzioni di miele di agrumi nel Sud Italia e quelle di alta montagna. Quasi nulla la produzione di acacia, che ha raggiunto il minimo storico, con la sua fioritura delicata, passando da un volume complessivo di raccolto di 705 tonnellate del 2015 alle 265 del 2016 fino alle 198tonnellate di quest’anno. «Nel complesso – spiega Giancarlo Naldi, presidente dell’Osservatorio nazionale del miele – le prime stime fatte a settembre parlano di una produzione totale nazionale di 14.000 tonnellate, rispetto alle normali 25.000 tonnellate annue».Un vero peccato, sotto tutti i punti di vista, anche perché sul mercato la domanda cresce. «La capacità produttiva diminuisce mentre aumenta la richiesta di miele di circa 20.000 tonnellate all’anno – avverte Diego Pagani, presidente di Conapi (Consorzio nazionale apicoltori) – e ci sono, dunque, significativi problemi per soddisfarla. Trovando terreno fertile in situazioni come queste, si verificano anche frodi e adulterazioni. Sono prodotti che in gran parte arrivano dall’Asia. È bene dunque fare attenzione alla loro provenienza».La scarsa produzione preoccupa non solo da punto di vista economico ma anche ambientale. Il freddo fuori stagione e il caldo anomalo successivo fanno sì che le piante, non “funzionando” correttamente, producano meno nettare e polline, materia prima del miele ma anche cibo delle api. La mancanza di nettare spinge l’apicoltore a sfamarle letteralmente con soluzioni di glucosio. Un’alimentazione di sostegno, non finalizzata alla produzione di miele, inutilizzabile alivello commerciale. A ciò si aggiungono gli incendi dei boschi che mai come quest’anno hanno distrutto milioni di esemplari di piante e fiori, fonte di cibo e benessere per le api: solo nel parco del Vesuvio, secondo i dati raccolti dopo i roghi dell’estate scorsa da Coldiretti, ne sarebbero morte oltre 50 milioni. Senza dimenticare che il loro malessere è un campanello d’allarme della salute dell’ecosistema, di cui anche l’uomo fa parte.

Insetti garanti
La nostra storia è intrecciata con quella delle api, che compaiono sulla Terra circa 30 milioni di anni fa. Gli stessi egiziani hanno copiato da loro l’arte della mummificazione, trattando le mummie con la propoli, usata dalle api per ricoprire i cadaveri dei nemici intrufolatisi nell’alveare: il suo potere antisettico e antimicotico evita la putrefazione. L’ape, eccellente impollinatore, permette la biodiversità e il 70% delle colture commestibili. La nostra sicurezza alimentare, insomma, è in parte garantita da questo insetto, senza il quale non ci sarebbero patate, cipolle, fragole, pepe, zucca, carote, girasoli, mele, mandorle, cacao, solo per fare alcuni esempi. L’area in cui l’ape va abottinare è pari a 4.000 campi da calcio e se c’è qualcosa che non va, lo rileva per forza. Della famiglia di apoidei si contano20.000 specie in tutto il mondo, di cui un migliaio solo in Italia. La famiglia, paragonabile a un unico organismo, è composta generalmente dalle 50alle 100.000 unità. Stiamo assistendo, però, al preoccupante fenomeno dello spopolamento degli alveari. Un collasso della famiglia che si svuota degli individui adulti, condannando le larve a morte certa. Secondo quanto racconta Gianumberto Accinelli – entomologo, divulgatore scientifico, ecologo italiano- nel libro La meravigliosa vita delle api (Pendragon, 2016), in Italia ogni anno sono 200.000 le arnie che “cessano il loro ronzio”. Un lutto che dalle api si espande a fiori e piante, destinate a non essere più impollinate. Solo per comprendere i rischi che si corrono, basti pensare che attualmente le api nel mondo sono 3.600miliardi, vivono in 60 milioni di alveari sparsi su tutto il pianeta e sono accudite da 6,5 milioni di apicoltori. In Italia, secondo i dati dell’ultimo censimento, dicembre 2016, gli alveari sono oltre 1,1milioni e gli apicoltori più di 45mila.Grazie all’uomo, l’ape ha espanso il suo areale ma per colpa dell’uomo oggi muore. E i cambiamenti climatici sono solo la punta dell’iceberg. L’introduzione nei primi anni Duemila di pesticidi di nuova generazione, i neonicotinoidi, ha determinato una vera e propria strage. Nel 2008 la prima massiccia moria di api vicino alle colture di mais ha permesso di comprenderne lo stretto legame con la concia dei semi di mais trattati con questi prodotti. «Durante la semina del mais si formano delle polveri che vanno nell’ambiente e finiscono nelle acque. È facile per le api entrare in contatto con sostanze che per loro si rivelano7.500 volte più tossiche del Ddt – spiega Claudio Porrini, entomologo e ricercatore del dipartimento di Agraria dell’università di Bologna – e interferiscono sia sulle sue capacità cognitive che sul suo sistema nervoso. Spesso l’ape non è più in grado di tornare a casa e comunque risulta inutile all’alveare».

Molecole killer
Il governo italiano ne ha limitato l’uso ma manca ancora uno stop definitivo.«La Commissione europea, sulla base dei precedenti report dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) – racconta Francesco Panella – ha proposto di escludere l’uso delle tre molecole più importanti dei neonicotinoidi (clothianidin, imidacloprid e thiamethoxam), fatto salvo per l’utilizzo in serra. Non mi aspetto che la proposta passi, visto che gli Stati membri sono i primi a rifiutare le procedure proposte dall’Efsa. A cominciare dalle misure per l’accertamento precauzionale dei rischi di queste molecole, da effettuare prima di autorizzarle ma definite inattuabili dalle lobby della chimica anche per motivi di costi. Gli unici ad averle implementate sono Belgio e Austria. L’Europa autorizza i principi attivi ma i Paesi membri autorizzano i preparati. Tutti gli altri fanno resistenza. Siamo in una situazione di stallo – conclude – sia sulle tre molecole principali che sulle procedure precauzionali». Spesso una legislazione che non preservale api si unisce a uno sfruttamento sconsiderato. «Negli Stati Uniti –riprende Panella – le api sono un input alla produzione agricola, con una riduzione al massimo della manodopera. Ci sono 16 milioni di alveari in Europa e 1,5 negli Usa. Svolgono un servizio di impollinazione in colture super trattate, subiscono somministrazioni di antibiotici e grandi spostamenti per ottenere il massimo rendimento. In inverno la percentuale di alveari morti è pari al 35%,rispetto al 5% che è la norma».Va ancora peggio in altre aree del mondo. «I Paesi dell’Europa dell’Est sono grandi produttori di miele ma non c’è rispetto dell’animale – incalza Accinelli– che viene sfruttato all’inverosimile. Anche il miele non è particolarmente sano, in quanto trattato termicamente per renderlo liquido. I mielari sono lo stomaco dell’ape: togliendolo di continuo, lavora per nutrire una fame inguaribile. Basta poi un niente perché muoia. L’ape inoltre avrebbe bisogno, proprio come noi, di una dieta varia, che si traduce nel visitare più fiori. Sono le tecniche apistiche, per ottenere mieli monoflora, che permettono all’ape di visitare solo quel determinato fiore».

 Agricoltura da cambiare
A minacciare la vita delle api si aggiunge l’agricoltura sconsiderata, che distrugge la biodiversità dei fiori. Le campagne ricche di girasoli mettono adisposizione moltissimo polline. Peccato che le api, come accennato, abbiano bisogno di variare la loro dieta per non entrare in crisi. L’agricoltura intensiva distrugge molte varietà di piante, fra cui anche quelle selvatiche, la cui esistenza dipende proprio dall’ape. «Se queste vengono tagliate – ammonisce Accinelli – l’ecosistema diventa debole e basta un niente per farlo ammalare e distruggerlo». I rischi non finiscono qui e la nostra ape mellifera, a causa dei processi di globalizzazione, sta facendo i conti da 30-40 anni con la varroa, un acaro proveniente dall’apis florea delSudest asiatico. La varroatosi, malattia con il maggior impatto sull’apicoltura a diffusione globale, causa malformazioni, alterazioni del comportamento, riduzione dell’aspettativa di vita con conseguente indebolimento e collasso delle famiglie.«La varroa resta un problema che però fortunatamente si riesce a gestire con metodologie biologiche – spiega Panella– che non contaminano e non lasciano tracce». L’ape non è l’unico insetto impollinatore esistente, nonostante sia fra i più efficienti. Quando Cristoforo Colombo scoprì il “Nuovo mondo” l’ape non c’era e la ricca biodiversità trovata oltreoceano era affidata ad altri impollinatori. È dunque sbagliato credere che senza l’ape la vita sulla Terra finisca. Farfalle, coleotteri, mosche e zanzare svolgono il medesimo compito. Il vero problema è che tutti gli insetti volatili stanno sparendo. Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Plos One, sviluppata per 27 anni all’interno delle 63 oasi della Germania, ha evidenziato un declino medio del 76% degli insetti alati. Un rischio per l’equilibrio dell’ecosistema, perché sono sia impollinatori di piante che prede per la fauna selvatica. Gli esperti ne attribuiscono le cause alla perdita di habitat attraverso la distruzione di aree selvatiche e all’uso di pesticidi, oltre ai cambiamenti climatici.

 Come reagire
Una situazione preoccupante, insomma, di fronte alla quale la chiave di volta può essere rappresentata anche dalle scelte di consumatori consapevoli, che con le loro azioni possono fermare la moria degli insetti, comprando ad esempio alimenti biologici al posto di quelli trattati con pesticidi. Ma ci sono anche risposte nuove, che arrivano da associazioni ambientaliste e apicoltori. “Api e orti in città” è il progetto di Legambiente e Conapi per recuperare la biodiversità. È stato lanciato in tre città, Potenza, Milano e Bologna, e ha come obiettivo la sensibilizzazione della popolazione sull’importanza delle api. «È un progetto che nasce dal basso – dice Daniela Sciarra, responsabile filiere e politiche agroalimentari di Legambiente– perché gli orti urbani fanno parte del“Dna” della nostra associazione, a cui si aggiunge la tutela della biodiversità in città. In questo modo vengono coniugati secondo i dettami del biologico con quelli dell’impollinazione, ospitando degli alveari. I volontari poi si occupano dell’azione di monitoraggio. Le api infatti svolgono una preziosa fotografia dello stato dell’ambiente». E ci aiutano a vivere meglio.

Source: lanuovaecologia.it

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