di Adele Colacino*
Naturalmente Carmine’s, non avevamo dubbi, è un ristorante che ha origini italiane. Anzi per tutti è un ristorante italiano, meno che per gli italiani. È strapieno: di gente, di lampadari a gocce, di giganteschi ritratti a olio di ogni generazione che lo ha gestito, di fiori e di piante, di camerieri di ogni colore, filippini, coreani…
Velocissimi, ci dividono in due tavoli e già ci portano da mangiare, il menù è stato deciso e stabilito anche nelle dosi, come su una ricetta prescritta dal medico. Qualcuno chiede di avere del vino, un calice ha lo stesso valore del costo della cena. Si assiste alle solite scene tra il commensale e il cameriere, non parlano la stessa lingua e cercano di concordare la qualità dei tre sorsi mesciati in un calice gigante.
Portano vassoi con quantità industriali di rigatoni al ragù. La pasta ed il sugo arrivano in tavola come ad un appuntamento al buio. Non si sono mai incontrati prima. I rigatoni bianchi di scolapasta girano le costole al sugo che ha occupato la piazza centrale del piattone. Rosa che come al solito ha batterie a lunga, lunghissima durata, si alza e mescola il tutto, portano un secondo ed abbiamo finito di cenare. Resta più cibo sul tavolo di quanto non ne abbiamo consumato.
Cominciamo ad entrare seriamente nella mentalità e chiediamo di portar via il cibo che andrebbe sprecato. Abbiamo in camera “un moderno angolo cottura (che) vi consente di cucinare in maniera semplice e flessibile. È bene attrezzato con frigorifero, piano cottura con due fornelli e forno a microonde, macchina per il caffè, nonché stoviglie ed utensili ed altri strumenti essenziali per preparare da mangiare a qualsiasi ora”. È tutto vero, peccato che – essendomi iscritta per ultima al tour – ho dovuto accettare di dormire in una tripla, mi hanno fatto uno sconto sul costo, ma nella camera superattrezzata troviamo solo due letti. Letti americani, quindi grandi, ma sempre due. Le mie due amiche hanno lasciato un letto tutto per me, ma almeno quella prima notte non ho dormito per il disagio. Il primo giorno o notte, non so bene, si conclude con una foto davanti alla porta dell’hotel Element, con le nostre facce distrutte e grandi borse con dentro grandi tegami cuki super resistenti.
La nostra camera è al diciottesimo piano, una marea di gente va su e giù a tutte le ore, ho trascorso molto tempo in quei quattro ascensori, veloci ma disorientanti. Premevo il pulsante del mio piano e già cercare il 18, tra 40 pulsanti, e con altre mani bianche, nere, gialle rosse davanti che prenotavano, non era semplicissimo. L’ascensore sembrava impazzito e ci costringeva sempre e comunque a passare dal quarantesimo.
Il nostro hotel merita comunque di essere citato per il fatto di trovarsi sulla 39th Street, tra la ottava e la nona Ave, nel quartiere dei teatri, e per offrire acqua calda e fredda a qualsiasi ora: considerato il costo di una bottiglia di minerale, non era male. Stremati dalle lunghe camminate, a sera potersi preparare una buona tisana prima di andare a letto è stato molto confortevole.
Il primo giorno a NY avevamo appuntamento con la grande parata di Macy’s. La manifestazione legata alla festa del Ringraziamento (Thanksgiving). Quando siamo arrivati nella zona suggerita dall’agenzia di viaggio, sui marciapiedi, dietro le transenne, non c’era spazio nemmeno per metterci un piede. Alcuni poliziotti ci hanno aiutati a toglierci dal percorso, ironizzando anche sul nostro impaccio a comprendere da che parte andare, ogni accesso era stato chiuso. In seguito, chissà come, in un piccolo gruppo capeggiato sempre da Rosa, siamo riuscite ad arrivare quasi in prima fila dopo aver percorso chilometri di caseggiati. La gente urlava entusiasta alla comparsa di ogni megapallone sorretto da decine di persone che, muovendo dei fili, davano movimento alla figura che volava in alto davanti ai grattacieli.
Sinceramente solo alcuni carri meritavano tanto entusiasmo, ma Spiderman, Topolino ed Hello Kitty in formato gigante che sfilavano mentre tanti poliziotti continuavano a spingerci indietro urlando «GO BACK ,GO BACK» mi facevano girare i nervi . Me ne sarei andata volentieri se solo avessi avuto idea di quale direzione prendere.
Dopo circa tre ore tutta quella marea umana è andata di corsa ai grandi magazzini per il Black Friday. Naturalmente abbiamo pensato bene di tralasciare questo shopping. Non era, diciamo, un viaggio d’interessse culturale, ma la ressa al centro commerciale, anche se con i black sconti, era davvero troppo.
Un pullman, come sempre avviene quando il tempo è poco e si vuole aver idea di cosa tornare a visitare in un altro tempo, ci ha portati in giro nei giorni seguenti a visitare Little Italy, Chinatown, ed il Greenwich Village. E poi la parte alta di Manhattan, la bellissima Grand Central Station, Rockefeller Center, San Patrick, il quartiere di Harlem, Saint John, la Columbia University. Ovunque gli addobbi natalizi erano enormi, giganteschi, solo in America il filo con le lucine colorate per l’Albero di Natale può occupare quasi l’intero marciapiedi di un isolato. Nel Central Park un tizio, naturalmente, suonava la chitarra e cantava Imagine!
Al ritorno la domanda che quasi tutti mi hanno posto era la stessa: «cosa ti ha emozionato di più?». Il fazzoletto di carta, raccolto a formare un fiore bianco, inserito nella “O” di un nome latinoamericano inciso nel parapetto di una delle grandi vasche che occupano lo spazio dove sorgevano le Torri gemelle.
Arrivare a Long Island e pensare a nonno Francesco che quando eravamo piccoli e costretti a letto per la febbre ci raccontava, a puntate come una soap opera, “u fattu e l’America”. I suoi due viaggi da emigrante, vedere la Statua della Libertà entrando nella baia di NY come l’ha vista e ce la raccontava lui. E ce ne costa lacrime st’America…
Salire in tre battiti del cuore in cima all’Empire State Building e riflettere su cosa è capace di costruire l’uomo e su cosa è capace di provocare mettendo una croce sul nome sbagliato.
«Cosa ti ha meravigliato di più?»
Il poter entrare in un qualsiasi esercizio, lussuoso o modesto, chiedere della toilette ed avere gentilmente indicazione su come raggiungerla! Vedere che in Wall Street, addossato ai sacri muri del Potere, aveva il giaciglio di cartone un barbone. Dover passare il controllo della polizia prima di accedere al marciapiede che porta all’ingresso dell’orribile grattacielo di Trump, doverci entrare per timore di perdermi restando da sola fuori, mentre a gesti solidarizzavo con un gruppetto di persone che alzavano cartelli contro il “padrone” di quel posto dorato ed innaffiato. Non potermi regolare sui costi delle merci (in gran parte cinesi) e avere la sorpresa di pagare un prezzo diverso da quello del cartellino esposto.
Al momento di ripartire per tornare a Roma, al check-in c’erano moltissimi rabbini. Il loro congresso a New York era durato esattamente quanto il mio tour.
*(2. Fine)
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