In psicologia, parlare di intelligenza significa entrare in una sorta di buco nero in cui le ombre si confondono con gli oggetti. Se ne ricerchiamo la definizione, c’è consenso nel dire che le persone sono intelligenti quando sono brave a risolvere i problemi, a proporli o a trovare nuove prospettive degli stessi. Inoltre, la psicologia odierna preferisce proporre diversi tipi di intelligenza piuttosto che definirne uno solo, universale ed esclusivo.
Grazie a questa nuova concezione, possiamo dire che Einstein era una persona intelligente, così come lo erano Mozart o Manzoni. E possiamo affermarlo senza bisogno di ricorrere a dei test, perché riteniamo che i loro successi, le loro opere e le loro scoperte siano la prova più grande delle loro capacità. Possiamo affermare, quindi, che l’intelligenza, per rilucere, si nutre di altre capacità, come il lavoro, la memoria o la creatività.
L’intelligenza ha anche una grande componente genetica: in questo caso è il DNA a stabilire molte delle carte con cui giocheremo la partita della vita, ma non tutte. Alcune le pescheremo dal contesto, soprattutto durante i nostri primi anni di vita, quando la nostra plasticità cerebrale è immensa e l’architettura del cervello sta ancora gettando le sue basi, in particolare quelle sul comportamento sociale.
Lo studio dell’intelligenza nacque in due contesti curiosi, con l’interesse di quantificare e delimitare le differenze individuali in questo processo psicologico. Questi due contesti sono l’esercito (rilevante il lavoro di R. Yerkes nell’esercito nordamericano durante la Prima Guerra Mondiale) e il sistema educativo (rilevante il lavoro di A. Binet nella ristrutturazione del sistema educativo francese). In entrambi i casi si studiò l’intelligenza con l’intenzione di differenziare le persone intelligenti da quelle non dotate di questa qualità. Il fine ultimo era dunque quello di creare uno strumento affidabile, in grado di misurare questa capacità, compito con cui gli scienziati attuali sono ancora impegnati.
Le persone intelligenti sembrano condividere con i creativi l’amore per il disordine apparente. Questo tratto, che può creare molti problemi di convivenza, è legato alla loro capacità di trovare soluzioni distinte. Spesso, infatti, le soluzioni geniali derivano dal riordino degli elementi in un modo particolare, diverso rispetto a quello usato dagli altri. Se non ci credete, provate a pensare al disrdine che regnava sulla scrivania di Einstein, ad esempio.
A questo proposito, citiamo un curioso studio svolto da Kathleen Vohs e i suoi collaboratori, che selezionarono alcuni volontari, dividendoli in modo casuale in gruppi. Uno dei due gruppi venne inserito in un ufficio con delle scrivanie disordinate, l’altro in un ufficio con le scrivanie immacolate. Ad entrambi venne chiesto di fare del brainstorming per risolvere vari problemi, dal quale emerse che gli individui dell’ufficio disordinato avevano formulato idee migliori e in maggior numero rispetto agli individui dell’ufficio ordinato.
Le persone intelligenti non sono grandi collezioniste di amici. Il tempo che dedicano alle relazioni sociali viene impiegato per stare bene con gli amici consolidati piuttosto che per creare nuovi rapporti.
Gli studi sostengono che, tra le persone intelligenti, il numero di amici e la soddisfazione o il benessere generali percepiti sono inversamente proporzionali. Questo fatto è curioso, perché se invece applichiamo quest’associazione alla popolazione mondiale generale (cioè non considerando solo i più intelligenti), la quantità di amici e la soddisfazione provata sono direttamente proporzionali.
Questo fenomeno è spiegato in modo semplice da una teoria evolutiva: le persone intelligenti non hanno bisogno di supporto in tanti campi, come invece accade agli altri. Per loro, dunque, avere compagnia può rivelarsi più un “impiccio” che una fonte d’aiuto.
Andare in giro a sputare insulti non sembra una grande strategia, a meno che la nostra intenzione non sia quella di rovinarci la reputazione o di collezionare “nemici”. Ciononostante, su internet e persino sulla stampa scritta non mancano redattori che non rinunciano all’uso del linguaggio cosiddetto “volgare”. Le persone che dicono più parolacce sono più intelligenti? No, non stiamo dicendo questo, è da un’altra parte che vogliamo arrivare.
Stando ad uno studio del 2009 degli psicologi Kristin e Timothy Jay, la quantità di diverse parolacce che siamo capaci di dire è legata all’intelligenza. I due ricercatori chiesero ai partecipanti di provare a dire il maggior numero di scurrilità possibili; i risultati rivelarono che coloro che seppero stilare una lista più lunga di parolacce, riuscirono a battere gli altri anche con il lessico di altri ambiti.
Ci sono poi altri aspetti che paiono tipici delle persone intelligenti, come svegliarsi tardi, parteggiare per un orientamento politico di sinistra o dimostrare una forte sensibilità nei confronti dell’ambiente. Inoltre, sembra che le persone davvero intelligenti siano particolarmente a rischio di sviluppare delle dipendenze, in quanto le vedono come un modo per supplire ad un’assenza di stimoli esterni; questo era quanto succedeva anche al personaggio di Sherlock Holmes.
Source: lamenteemeravigliosa.it
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