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Cara Freeda, Quando La Violenza Diventa Psicologica

Cara Freeda, 

Ci siamo conosciuti sul posto di lavoro nel 2014, quando io avevo 24 anni e lui 35. Si trattava di un lavoro tecnico, poco consono a una donna, secondo la mentalità comune del posto, e secondo il suo stesso modo di vedere. Mi ha sottovalutata fin da subito, e ha sempre pensato che non fossi in grado di fare gli stessi lavori tecnici che faceva lui, in parte perché inesperta, in parte perché donna.

Ricordo quando, qualche mese dopo esserci conosciuti, presi una casetta in affitto con un’amica. Quando lei se ne andò, gli chiesi di dormire con me. Lui venne, mi fece sua, mi rimboccò le coperte e tornò a casa. Mi lasciò così e io piansi per circa 2 ore fino ad addormentarmi sul cuscino bagnato di lacrime. Ecco, quello fu il primo segnale di un uomo non ancora maturo per la sua età, che mi avrebbe sempre lasciata da sola nel momento del bisogno. Avrei dovuto lasciarlo subito, dopo aver pianto così tanto, e invece mi sono illusa che le sue non fossero scuse ma ragioni plausibili per le quali aveva preferito tornare a casa.

L’ho giustificato nonostante mi avesse fatto piangere. Dopo circa 6 mesi, durante un aperitivo sul mare, mi confessò di essere andato in un Night Club con amici, quando già ci frequentavamo da 3 mesi. Fu un duro colpo per la mia autostima pensare che aveva visto tante donne nude, desiderandole, e che dopo qualche giorno era venuto di nuovo a letto con me. Neanche in quell’occasione ebbi il coraggio di lasciarlo, perché, a detta sua, avrei dovuto essere flessibile e accettare l’accaduto, “tanto ormai era già successo e poi era andato in quel posto solo per bere un drink”. Ennesima scusa, ennesima arrampicata sugli specchi, ennesima mancata ammissione di colpa. Lo ascoltai e cercai di farmene una ragione, pensando che da donna sarebbe stato “il mio destino” quello di accettare frustrazioni di questo tipo, perché gli uomini “sono fatti così”.

Ma qualcosa nel mio cuore cambiò. Un velo di delusione era ormai visibile nei miei occhi. Non so perché non riuscissi a vedere che, anche a detta di persone che mi erano vicine, per lui ero solo un oggetto. Ricordo tutte le volte in cui mi metteva in soggezione aspettando ogni momento un mio sintomo di debolezza per colpirmi più a fondo. Mi ha fatto sentire inadeguata, umiliata, poco curata, brutta, grassa, inopportuna, incapace, tante e tante volte. Ha cercato di distruggere la mia autostima.

Nel febbraio 2016 è successo qualcosa che mi ha fatto capire che la situazione stava degenerando: una domenica di Carnevale avremmo dovuto raggiungere dei suoi amici alla festa, ma lui non ci voleva andare. Non gli andava, e sono stata costretta a restare con lui. Mi sono sentita un oggetto, un qualcosa che non aveva più alcun potere di decidere per sé quando uscire e chi incontrare. Io ero sua e lui decideva cosa fare e dove andare, anche per me. Qualcosa è scattato dentro di me, qualcosa di molto piccolo che mi suggeriva di tirarmi fuori da quella situazione.

Ho iniziato a svegliarmi, piano piano, nella vita reale. Mi sono ripresa le mie libertà, decidendo di uscire una volta a settimana con amici che ormai avevo allontanato da tempo. Andava un po’ meglio, ma ancora mi riprendevo a fatica. Finché una settimana, ad agosto 2017, in cui si concentravano per me delle scadenze di lavoro e svariati impegni di famiglia, lui si è dimostrato insensibile e narcisista più del solito. Anche se avevo dormito solo 5 ore e mi sentivo stanca, doveva decidere lui a che ora uscire insieme la sera, dove andare e dove fermarci a bere. Un’idea a quel punto è nata in me, quella che ha cambiato tutto: proporgli di vivere insieme, per una settimana soltanto, per capire entrambi se la nostra relazione sarebbe potuta andare avanti oppure no.

Non ci vedevo davvero nulla di male in quella che per me era un’opportunità, non un impegno, oltre che un’occasione per passare più tempo insieme. Ed eccola che è arrivata la risposta che tanto temevo: senza neanche lasciarmi spiegare le mie intenzioni, la voglia che avevo di dormire con lui e di ritrovarlo accanto al mio risveglio, mi ha detto che provare a vivere insieme nella sua casetta di campagna sarebbe stato troppo complicato. Ha iniziato a inventare una serie di scuse talmente superflue che l’ho lasciato parlare senza neanche controbattere. Alla fine, ha confessato il suo desiderio di voler restare in totale comodità a casa sua, lontano da problemi e complicazioni. Io ero un problema e una complicazione per lui. A 38 anni non voleva neanche provare ad andarsene di casa.

La prima cosa che ho pensato di fare è stata di andare dalla madre a congratularmi per il grande uomo maturo e responsabile che aveva cresciuto. Ma non l’ho fatto perché non sarebbe servito a mandare via la delusione di quel momento. La seconda è stata di lasciarlo definitivamente e subito. Ed è quello che ho fatto. Non potrei mai svegliarmi la mattina, guardarmi allo specchio e rendermi conto di stare con un “uomo” che a 38 anni non ha alcun desiderio di indipendenza e autonomia né alcuna voglia di andarsene di casa. Non potrei mai, soltanto per la stima che ho di me stessa. Ecco qual è stato il punto limite, quello che mi ha fatto rinsavire: il mettere in dubbio la mia dignità come persona e come donna. Un uomo che sta con me deve essere una persona della quale io possa avere stima. Per me è finito tutto lì, in quel momento, con quelle parole.

Sono tante le cose successe in questi lunghi 3 anni insieme. La cosa che più mi mandava in confusione era il fatto che a tratti era dolce con me, a tratti aggressivo e prepotente e alzava la voce. Credo che la minima speranza che lui potesse migliorare sia stato ciò che mi ha fermato dal lasciarlo subito, ai primi campanelli d’allarme. Oltre il fatto che lui tendeva sempre a colpevolizzarmi, anche quando avevo palesemente ragione. Avevo sempre la sensazione di essere sbagliata perché ero io quella che doveva adattarsi a lui, quella strampalata e un po’ pazzerella che doveva rientrare nei suoi schemi. Invece era lui, nella realtà, ad alzare la voce contro di me. E niente può giustificare questo.

La ripresa è stata lenta. Le prime due settimane dopo che ci siamo lasciati sono state dure, non tanto perché sentivo la sua mancanza, anzi. Mi rendevo sempre più conto dello stato di sottomissione in cui mi aveva fatto cadere e di tutte le mancanze sia fisiche che psicologiche che mi aveva fatto provare. Non mi ha mai detto “ti amo”, mai una volta in 3 anni. Dormire con me era sempre uno sforzo per lui e cercava sempre di divincolarsi con una scusa. Dopo il sesso pochissime volte si è soffermato ad accarezzarmi e coccolarmi e spesso mi ha fatto sentire un oggetto. Non è mai stato lì a sostenermi quando ho avuto bisogno, anzi. È stato il primo contro cui ho dovuto lottare per affermarmi poi nella vita e nel lavoro. Mi ha fatto sentire sola, più sola di quando non stai con nessuno. Tuttora mi fermo a pensarci ogni tanto. L’unica cosa che mi chiedo è perché. Perché sono stata trattata così fin dall’inizio. Perché mi sono trovata costretta a difendermi da chi avrebbe dovuto farmi sentire protetta. Perché è stato difficile essere creduta e perché ho dovuto tirarmi fuori da sola da tutto questo. Perché gli uomini sono attratti da me per la mia libertà e poi cercano in tutti i modi di togliermela. Perché gli uomini confondono l’amore con la possessività. Mi basterebbe capire perché per trovare la pace.

 

Source: freedamedia.it

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