Binari di carta

Credo sia davvero fantastico. Trovare nel suono della propria voce il conforto che manca, la conferma di esistere, la certezza di non essere solo sagome, ma cuori pulsanti. Davvero fantastica la capacità di urlare il silenzio, fendere l’aria con ciò che pensiamo, con la consapevolezza di essere arte, essere satelliti di chi e di cosa scegliamo.

Parole che scavano in quel cuore pulsante, vi si immergono, sempre nel punto più fragile. A fil di voce, parole spente, prive di senso, prive di vita, parole che sanno ascoltare. Con tutta l’aria che c’è in petto, parole esplose, scagliate, frantumate, irrespirabili.

Poi c’è quel bisogno di parlare, quel bisogno di esprimere, l’incapacità di trattenere, di stare in apnea in un mondo che affonda; quel bisogno incolmabile di raccontarci agli altri, di avere chi ascolta. Io non sento il bisogno di parlare, non ho quasi mai la necessità di esprimere. I piccoli vuoti accumulati fra le teorie di stanze che si trovano dentro di me, non sono realmente “vuoti”. Il vuoto non è il nulla, è materia, pensiero, riflessione, astratto e irrazionale, spazio che aspetta, tempo che corre, che scivola.

Non c’è alcuna parte di me che mi intimi di parlare. Al contrario, tutta me stessa si pone in ascolto del silenzio e ne discerne l’infinito, ne estrae frammenti di realtà.

Un po’ è anche l’amore per ciò che mi è sconosciuto, la bellezza della distanza, il non sapere, il voler conoscere ciò che al di fuori di noi ci pare mal ritagliato, ma che per gli occhi di altri può significare quel vuoto profondo, quella parola ben spesa, quella vita consumata come un fiammifero.

Immaginare sé stessi, proiettati in quel minuscolo spazio negli occhi degli altri. Anche solo pensare di non essere ciò che siamo, di non avere ciò che abbiamo. Perché siamo soltanto ombre, quando il sole tramonta non rimane che polvere. Siamo treni di piombo su binari di carta.

Vedere nella luce un qualcosa di scorrevole, di cristallino, enigmatico, quasi animale. E avere il bisogno di raccontarlo a chi, come noi non immagineremmo mai, ha bisogno di ben altre parole. Credo che i gesti non possano sostituire la parola, ma la parola non può troneggiare, emettere sentenze, assistere alla vita con falsa impotenza. I gesti si ribellano, non coesistono, ma esistono, sono. Le parole non hanno consistenza, sono cenere sul palmo di una mano: dopo aver soffiato e aver disperso quei piccoli granelli non rimane altro che un gesto, un atto che non voleva coesistere.

Ma la parola, la voce, la vita, hanno scopi unici, differenti, basati sull’idea che ciò che non è concreto non sfiora la mente dell’uomo.

 

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