di Anna Caltagirone Antinori
Era il 1951, con incarico di insegnamento annuale fui assegnata alla scuola elementare di San Lorenzo di Treia. È una frazione un po’ scomoda perché comprende molte case di campagna sparse qua e là sulla collina che arriva a lambire la montagna coperta da una fitta pineta. Nella scuola c’erano tutte e cinque le classi divise in due sedi: una nel fabbricato dello spaccio e la mia, appollaiata su un cocuzzolo accanto alla chiesa. La casa era di proprietà della famiglia Ciriaco ed aveva più piani. Il portoncino della scuola dava sulla piazzetta della chiesa. Si entrava in un corridoio, a destra c’era l’aula scolastica, a sinistra il mio appartamento: una camera e una cucina. Al piano di sopra abitava la famiglia del proprietario con la quale ero in ottimi rapporti.
Gli abitanti dei dintorni erano tutti contadini che lavoravano, come mezzadri, piccoli appezzamenti di terreno. La guerra era finita da pochi anni, gli uomini erano tornati al lavoro, ma i terreni di montagna, si sa, rendono poco e tante famiglie tiravano avanti senza tante risorse, altre vivevano in miseria e si vedeva.
Su un pianoro, vicino alla pineta, c’era una casa con attorno un piccolo campo coltivato a grano e foraggio. Vi abitava una famiglia numerosa con tanti bambini e poche braccia da lavoro. Nella stalla qualche mucca, le pecore e una mula che era l’unico mezzo di trasporto per andare a Treia che distava diversi chilometri: in discesa all’andata, ma che salita al ritorno!
I bambini dell’età scolare erano due: un maschietto e una femminuccia. Tutti e due capitarono nella classi assegnate a me, venivano in orari diversi perché frequentavano classi diverse: il bambino al mattino e la sorellina nell’orario pomeridiano.
Fin dai primi giorni di scuola il maschietto mi si presentò col grembiule, il colletto e il fiocco ma senza scarpe. Non ebbi il coraggio di mandare a chiamare la mamma, però la domenica la vidi a messa e le chiesi perché il bambino veniva a scuola scalzo. Serenamente mi rispose: «Signurì, in famiglia siamo tanti e non ci possiamo permettere le scarpe per tutti, perciò li abituo fin dalla nascita ad andare scalzi». Rimasi di stucco e, non sapendo cosa dire, cambiai discorso. In classe il bambino era sempre attento e apprendeva con facilità perché era intelligente, per stimolarlo gli promisi un regalo.
Finalmente a fine mese presi il mio primo stipendio e poiché potevo permettermelo gli comprai un paio di scarpe.
Il giorno dopo, finita la lezione, trattenni il bambino e quando i compagni si furono allontanati gli mostrai le scarpe. Sgranò gli occhi e volle subito indossarle poi si alzò di scatto, fece alcuni passi, mi si avvicinò e mi ringraziò con un sorriso che voleva dire tante cose
Dopo un po’ di giorni vidi che la sorellina, anziché portare gli zoccoletti di legno come sempre, si era messa le scarpe del fratello, che erano pulite e lucide ancora come nuove. Non le dissi nulla e mi ripromisi di scoprire la verità.
La mattina dopo all’uscita della scuola mi affacciai alla finestra perché mi era venuto un dubbio e vidi il maschietto che si trastullava per fare andare avanti i compagni, poi si toglieva le scarpe e le nascondeva nella buca di un pagliaio e tornava a casa a piedi nudi. Tutto fu chiaro: il bambino, abituato ad andare scalzo, si toglieva le scarpe e le metteva in un nascondiglio che solo la sorella conosceva. La bambina quando veniva a scuola lasciava gli zoccoletti nel pagliaio e si metteva le scarpe del fratello, per essere a scuola più in ordine. Ecco perché le scarpe erano sempre lucide e non si consumavano mai!
Così i due fratellini avevano risolto il problema; le scarpe erano troppo preziose per rovinarle e le indossavano a turno.
Source: https://donnedellarealta.wordpress.com
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