Estoy intentando aprender español. Sì, a trent’anni suonati. È un’esperienza faticosa e insieme entusiasmante. Nel leggermi molti di voi non faranno una piega, eppure per me non è così facile confidare nelle mie probabilità di successo. Nonostante abbia musicalità, ottima memoria e faccia tosta – tre caratteristiche che vengono spesso elencate fra le qualità riunite sotto il cappello di “talento per le lingue” – una vocina nella mia mente mi ricorda spesso che sono troppo vecchia, rallentando e fiaccando il mio apprendimento. “Il tuo cervello-llo-llo non è più quello di una volta-olta-olta…”, insinua la voce, con un terribile effetto eco. “Se solo l’avessi studiato-ato-ato quando eri in fasce-sce-sce… ma ormai è tardi-ardi-ardi, lo sai-ai-ai…” velenosa, suggerendomi piuttosto di ripassare il mio inglese, che una volta faceva invidia e ora ricorda quello di Alberto Sordi – du iu remember, mami?. Non saprei ben dire chi alimenti quella vocina, se l’imbarazzo – “non aspirare così la jota, sembri un arabo con la tracheite!” -, la pigrizia – “accontentati di capirlo e sparati una serie in lingua originale!” – o il perfezionismo – “parla come Miguel Bosè o non aprire bocca!”. Per carità, io ce le ho tutte, colleziono paranoie come carte Magic, da estrarre all’occorrezza per abbattere i miei avversari col mio potere speciale di fargli venire il latte alle ginocchia. Però sono certa che quel retropensiero di autosabotaggio faccia leva su uno stereotipo gigantesco, non ancora sfatato e per questo molto diffuso.
La convinzione che si possa imparare bene una lingua solo da bambini è a tutt’oggi radicata e potente nella nostra visione collettiva. Questa credenza si basa su alcune generiche certezze scientifiche riguardo le potenzialità cognitive e di apprendimento dei bambini, ma esistono tantissimi studi non concordi che riportano diverse evidenze empiriche. Nonostante ciò, si insiste col voler sostenere il primato dei pargoli come un dogma o una condanna – di cui spesso e volentieri sono vittime anche gli stessi infanti, costretti ad aggiungere le lezioni di fiammingo al convulso calendario di attività extra-scolastiche cui i genitori li sottopongono.
Solo a maggio scorso, agi ha ribadito questo punto di vista condividendo una ricerca del MIT e dell’Università di Harvard, condotta su un campione di 670mila persone: gli esiti dell’indagine massiccia riportati nell’articolo allungano sì l’orizzonte temporale fissato per imparare una lingua straniera a 18 anni, ma concludono comunque che, per motivi biologici e di stile di vita, se gli adulti iniziano a studiare “in adolescenza o dopo la maggiore età non possono sperare di raggiungere la fluidità di un madrelingua.” Così, secondo loro, io non posso sperare? Beh, ho chiesto delucidazioni consolatorie ai miei amici linguisti – che ringrazio per la generosa sopportazione – e ho avuto conferma che non è del tutto vero.
In primo luogo, un concetto generale: non si è mai troppo vecchi per imparare. Sia la docente e ricercatrice Paola Bigotti, che insegna italiano agli stranieri dal 1995 all’Università Ca’ Foscari di Venezia, sia la collega Claudia Secci, esperta di educazione degli adulti presso l’Università di Cagliari, premettono alle loro riflessioni sul tema la definizione dell’“andragogia”, il modello di apprendimento per discenti in età adulta nato nell’Ottocento e affermatosi nel Novecento in ambito psichiatrico, psicologico ed educazionale. Il nome “andragogia” è stato infatti coniato in opposizione al termine “pedagogia”, che etimologicamente si riferisce solo ai bambini. Il modello dell’andragogia è legato ad un altro concetto, quello dell’ “apprendimento permanente”, già abbracciato in passato da Platone, Aristotele e Sant’Agostico, e oggi espresso chiaramente dal principio del Lifelong Learning, che vede l’adulto al centro di una formazione, seppur dinamica e altalenante, costante lungo tutto l’arco della propria vita; e dal principio di Lifewide Learning, che include nel campo di apprendimento tutti gli aspetti dell’esistenza umana. Quindi, iniziamo con l’ampliare la nostra idea di formazione estendendola oltre rigidi canoni ormai obsoleti; tanto più che negli ultimi anni, i contribuiti teorici, così come le occasioni e i contesti formativi indirizzati a noi adulti, sono cresciuti in modo notevole, dentro e fuori le istituzioni.
In secondo luogo, ci sono davvero tantissime ricerche pressoché sconosciute, magari divulgate solo su riviste scientifiche o case editrici specializzate, che dimostrano come l’assimilazione in età adulta di una seconda lingua straniera possa avvenire efficacemente fino al raggiungimento un’ottima fluidità.
In Apprendimento permanente e educazione: Una lettura pedagogica, Claudia Secci scrive:
In passato si tendeva a partire dal presupposto che i bambini apprendessero meglio le lingue straniere, in quanto vi è una soglia critica oltre la quale “l’apprendimento conduce sempre a una competenza imperfetta”. Oggi tale presupposto è in parte smentito, sia perché la nozione di soglia critica, più che essere intesa come rigido spartiacque dovrebbe essere intesa come periodo sensibile, che dura alcuni anni (7-17 anni), sia perché la funzione di tale soglia non riguarda allo stesso modo tutti gli aspetti dell’apprendimento.
Nell’imparare una seconda lingua straniera, per esempio:
Si riscontra che i bambini apprendono con maggiore velocità e successo la fonologia di una lingua, mentre gli adulti sono avvantaggiati nell’apprendimento della sintassi e della morfologia; il lessico, infine, può essere appreso, con minori differenze, ad ogni età.
Molti approcci andragogoci si focalizzano sui processi di acquisizione del discente, sui diversi stili cognitivi e sui bisogni interiori e professionali dell’allievo adulto, che presenta sicuramente una maggiore maturità cerebrale e psicologica e quindi diversi vantaggi rispetto all’allievo bambino.
Paola Begotti riporta che l’acquisizione di una nuova lingua in un individuo adulto può essere influenzata da numerosi fattori: individuali, come la motivazione, i tratti della personalità e la relazione emotiva con la materia di studio; sociali, come il contesto in cui l’individuo è cresciuto, ha vissuto e si è formato; naturali, come l’età e l’attitudine personale.
Perciò, in molti casi il discente adulto cerca situazioni di autoapprendimento, ossia strategie, regole e metodi personali, che il docente deve agevolare per condurlo nel suo percorso di autonomia. Begotti riferisce inoltre i risultati dell’indagine empirica condotta sugli studenti dei suoi corsi di italiano per stranieri, in particolare riguardo le strategie ludiche di apprendimento.
Ne emerge un quadro interessante e molto articolato, di cui trascrivo solo alcune conclusioni generali: gli allievi adulti dimostrano una maggiore serenità e un maggior controllo emotivo nell’apprendimento sia di una lingua seconda sia di una lingua straniera, e contribuiscono a una migliore cooperazione e organizzazione nel gruppo classe; e sono quasi sempre più disposti a esporsi in esercizi giocosi: non solo perché, diversamente dai più giovani, hanno superato il timore di essere tacciati di immaturità, ma anche perché si accostano all’apprendimento per piacere e per motivazione personale, con basi linguistiche ed esperienziali più solide.
Insomma, anche la Dea Scienza ha i suoi dubbi su questo luogo comune. Ora che lo sapete, non lasciatevi frenare dalla vostra età: inseguite il vostro desiderio e lanciatevi nello studio di una lingua straniera che avete sempre voluto imparare. Non vi adagiate sullo stereotipo di un cervello non più performante, ma usate le vostre difficoltà e i vostri vantaggi peculiari per conoscere voi stessi e raggiungere il vostro obiettivo.
Source: freedamedia.it