Il “dramma dei trent’anni” è una rappresentazione che ho visto in scena a ogni santo compleanno degli amici che hanno compiuto il famigerato giro di boa. Parliamoci chiaro: non sono una persona che si considera “arrivata” (stiamo correndo da qualche parte?) o che può vantare talmente tanti traguardi raggiunti da sentirsi a posto con se stessa e giudicare le frustrazioni degli altri (e le mie) con sufficienza. Ma in queste occasioni ho notato un abbondare di pericolosa retorica, che ci vuole già nostalgici dei bei tempi che furono (quali???) e che ci spinge a considerarci ormai da buttare. Vecchi catorci senza più niente da dare al mondo. Parlo di modi di dire, frasi abbozzate, che partono da un assunto base che ci vede intenti a combattere la vecchiaia – le donne con creme antirughe e anti cedimento totale dei tessuti, gli uomini contro pancetta e perdita di capelli – o in preda all’ansia di aver fallito, di non aver più tempo, di essere poco interessanti e appassionati soltanto al gioco “nomi, cose, patologie”. Credo sia più un vezzo che un reale sentimento, ma mi chiedo perché continuare ad affossarci con questi pensieri, quando possiamo guardare a quel poco di strada fatta e cercare di essere orgogliosi del quantitativo di realtà che siamo stati in grado di sopportare in questi anni.
In queste occasioni, cerco di abbandonare per qualche istante questo (finto, a mio avviso) dramma dei 30 anni, per pensare a come davvero li ho vissuti. E mi rendo conto, invece, di avere di fronte a me gli anni selvaggi della nostra giovinezza, anni cui finalmente possiamo guardare indietro a ciò che abbiamo costruito e avanti a ciò che ancora c’è da creare. Una terra di mezzo che non ha niente più del dubbio o dell’indecisione, ma tutto della possibilità: ci siamo arrivati – bene o male – seguendo un percorso nostro e capendo che non ce n’è uno “giusto” o “sbagliato” ma semplicemente uno che scegliamo. Tutte le paranoie che ci raccontiamo fanno parte di una mitologia, creata per farci stare tranquilli o metterci ansia – a seconda dei caratteri. Qualsiasi siano le scelte fatte nel passato, una cosa è certa: abbiamo avuto un bell’assaggio di cosa vuol dire fare i conti unicamente con noi stessi e non è una cosa da poco.
Più mi dicono che devo cominciare a “conservarmi”, a occuparmi di “mantenere” quella lucentezza di una gioventù in procinto di sfumare, più mi accanisco a voler dire no, e a sorridere a chi pensa che stia cominciando il declino, per affermare invece la mia ferma volontà di sprecarmi, di spendermi ancora in progetti sempre più ambiziosi, continuando a costruire e distruggere con la stessa leggerezza di un bambino – ma alzando sempre di più la posta in gioco. Questo ibrido tra adolescente e adulto che siamo, sembra una creatura uscita da un bestiario medioevale: fantasiosa, imprevedibile e magica: non mi dispiace affatto.
Gli anni a venire ci vedranno impegnati a lanciarci con sempre maggior entusiasmo in un’esistenza che abbiamo appena imparato a gustare – più consapevoli di quello che eravamo a vent’anni ma non ancora impauriti dal baratro della fine. Certo, si sentono le pressioni di una gioventù che incalza – e che non ci assomiglia più; ma quando guardo ai miei coetanei vedo persone più salde sui propri piedi. Magari non ancora risolte, ma più pacifiche rispetto agli inutili tormenti adolescenziali e non ancora sfibrate dal peso dell’esperienza. Siamo finalmente pronti ad affrontare le sfide che ci attendono; ci siamo sporcati le mani affondandole nella vita, abbiamo imparato lezioni importanti – e sappiamo, ormai, che non c’è nessuno al mondo che ce le può togliere.
Ancora speranzosi – ma non così ingenui da farci abbindolare dai sermoni facili – ognuno di noi ha guardato in faccia le proprie debolezze, cancellando l’incubo della vergogna con un sano senso di accettazione. E in questo percorso, abbiamo imparato ad aprire lo sguardo al mondo che ci circonda, guadagnando dei preziosi compagni di viaggio – persone a noi simili che ci hanno rasserenati sul fatto che la normalità è un punto di vista. Non dobbiamo più aspettare che qualcuno ci dia il permesso di essere noi stessi e forse abbiamo capito che possiamo tranquillamente prenderci le nostre libertà, andando fino in fondo alle nostre visioni e ai nostri desideri: abbiamo imparato che trasgredire non è solo bello, ma alle volte è anche necessario. Chi aveva troppa paura di vivere s’è dato una mossa, i più temerari hanno scoperto che la forza può derivare anche dalla sottrazione; quando abbiamo visto crollare le giustificazioni alle nostre derive, le abbiamo sapute leggere, accogliere e forse anche superare.
C’è una strana sensazione quassù in cima, nel picco di quella montagna che faticosamente abbiamo scalato ed è bello sostare un po’, scegliendo con cura – o con avventatezza, a secondo dei casi – i prossimi passi. C’è una strana quiete, trepida di avventura, e si sente come un senso di audacia nel pensare che le voci delle sirene che vogliono incantarci con false promesse o spaventosi scenari, sono soltanto un’eco lontana, di cui poter facilmente sorridere. Forse, ora, è davvero soltanto la nostra voce a contare unicamente per noi. E per carità, non è detto che ci siamo arrivati da soli dove siamo, ma di certo abbiamo capito che anche la solitudine è un’occasione e un luogo dove poter tornare con piacere. Mi ostino a pensare che negli anni a venire, mi potrò prendere un tempo per godere di ciò che ho appreso nel passato e utilizzare finalmente con più libertà quella forza che si era nascosta nelle occasioni più impensabili e che credo mi tornerà utile, per mettere in pratica tutto quello che ancora c’è da fare.
Il percorso non è finito e l’orizzonte che ci aspetta non è forse del tutto sereno, ma sono arrivata al momento di fermarmi per ammirare la vista, aggiustare la rotta e continuare il mio cammino, fiduciosa del fatto che, al di là di tutto, non ho bisogno di nient’altro che del mio corpo e della mia mente, per andare avanti. Hanno cercato di convincerci che avevamo bisogno di tutto ciò che non avevamo, abbiamo smosso mari e monti per inseguire i nostri sogni. E poi? Erano così importanti? Erano quello che volevamo? Per alcuni sì, per altri, no, ognuno ha cominciato a darsi delle risposte e a far fiorire nuove domande. Qualunque finale abbiamo conosciuto nella nostre avventure, siamo tornati ad affidarci alla nostra testa, alle nostre gambe e braccia, capendo che tutto quello di cui avevamo bisogno ci era già stato dato.
E dunque, l’interrogativo che ancora scalda i nostri cuori è sempre lo stesso: che ci vogliamo fare, con noi stessi? Tutti hanno cercato di rispondere al posto nostro, ma sono sicura che oggi, a questa età – raccontata sempre con così tanta frustrazione – possiamo farci forza guardando al nostro valore, invece che cedere alla tentazione (forse già sperimentata in passato) di seguire la visione di qualcun altro. Ora, non è questo un discorso che si può fare duranti i festeggiamenti di un compleanno; al brindisi, si scherza sul tempo che passa e capisco che dopotutto la retorica del “ormai siamo vecchi” ha qualcosa di sano e rassicurante. Ma in cuor mio, mentre alzo il calice e sorrido al festeggiato di turno, penso che non dobbiamo credere a chi ci dice che siamo ormai troppo vecchi per realizzarci, per trovare l’amore, per combattere quei mostri che non cennano ad andarsene – o peggio dei falliti, perché ancora non siamo passati ad un altro livello del gioco. Siamo in quell’età in cui le etichette che ci appiccicano addosso non si attaccano più e abbiamo tutte le carte in regola per prenderci per mano e portarci dove vogliamo. Fallire e riprovarci, sempre meglio. Possiamo fidarci di noi, siamo in cima alla montagna. Forti del nostro passato, il futuro è ancora tutto da scrivere.
Source: freedamedia.it